15 maggio, 2011

 

Costituzione. Democrazia fondata sul lavoro? Ma chi ha detto che l’art.1 non è liberale?

Andate a dirlo a Camillo Cavour che il lavoro è una “cosa comunista”, e vedete se non vi risponde con uno di quei suoi famosi scoppi d’ira che imbarazzano tuttora i suoi biografi! Lui, lavoratore instancabile e maniacale, al punto da andare non di rado a dormire alle 3 di notte per poi svegliarsi “prima dell’alba”, perché era solito dare appuntamenti di lavoro già alle 6 di mattina. Lui che, forse per la sua formazione anglosassone e protestante, non poteva concepire la libertà, anzi l’intera faticosa e difficilissima rivoluzione liberale, senza riconoscere al cittadino il diritto-dovere dell’operosità estrema, del lavoro, cioè del merito personale, da cui solo nasce il progresso materiale e morale. Come se la libertà del Piemonte e dell’Italia si potevano ottenere gratis, senza fatica, solo discettando di filosofia del diritto in comodi salotti foderati di cuoio e boiserie.

E sicuramente sul dovere prioritario del lavoro come dimostrazione delle proprie capacità individuali erano d’accordo anche il suo oppositore della sinistra liberale, Lorenzo Valerio, poi diventato cavouriano, il suo avversario Mazzini (che come al solito ne faceva una questione “etica”), e poi, lungo i decenni successivi, tutti i grandi liberali d’ogni tendenza, dalla cosiddetta “Destra Storica” liberale al mazziniano sindaco di Roma Nathan, all’economista “liberista” Einaudi, autore delle “Lezioni di politica sociale”.

Non si capisce, perciò, in base a quale ragionamento il primo comma dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che dice che “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, debba essere considerato anti-liberale da non pochi liberali di Destra.

Eppure parla di lavoro in generale, non dice “fondata sui lavoratori” (nel linguaggio comunista sinonimo eufemistico di operai, potenzialmente rivoluzionari) come Togliatti aveva proposto alla Costituente. Nella Costituente c’erano Croce ed Einaudi, e molti altri liberali, in una proporzione numerica con cattolici e comunisti che mai più ci sarebbe stata. E dunque, se piaceva a loro… D’altra parte, c’è perfino una ruota dentata nel simbolo dello Stato italiano, approvata dai primi Governi italiani, tutti liberal-centristi. E, a proposito, quel grande lavoro di tutti i cittadini dette i suoi effetti col “boom economico”, già quindici anni dopo la fine della guerra.

Non vorremmo pensar male, ma nell’improvvisa diffidenza per il termine “lavoro” c’è qualcosa di ambiguo. Ripetiamo, possiamo sbagliare, ma la cosa puzza di estrema Destra americaneggiante lontano un miglio, quel Right People estremista, alla Reagan o alla Thathcher, che non è affatto “giusto” per un liberale vero. E infatti quei conservatori, mancando del lessico right prendono a prestito proprio dai comunisti il significato sbagliato di “lavoro”. Anche per loro, come per i comunisti trinariciuti degli anni 50 e la Costituzione sovietica, il lavoro significa in realtà i lavoratori sindacalizzati, le masse operaie potenzialmente rivoluzionarie su cui si fonda l’elite della società autoritaria e totalitaria. Ancora una volta gli estremi si toccano e si aiutano. E no, cari liberali di Destra (molto più Destra che liberali): il lavoro è il lavoro, e basta. Senza contare che oggi, in tempi di “Repubblica fondata sulle raccomandazioni” oppure sull’appartenenza a questo o quel clan politico-affaristico, comunque non sul lavoro personale, cioè sul merito, quel primo comma dell’art.1 appare un concentrato delle virtù di operosità dei grandi liberali Padri della Patria.
NICO VALERIO

Sul tema pubblichiamo l’illuminante lettera aperta del liberale Enzo Palumbo, in origine indirizzata al Corriere della Sera il 4 maggio scorso, e non pubblicata per ragioni di spazio:

“Da qualche tempo circola nel Paese e trova spazio sui giornali italiani la leggenda metropolitana, secondo cui la nostra Costituzione sarebbe il risultato di un compromesso tra il cattolicesimo dossettiano ed il comunismo di stampo sovietico, mentre la cultura liberale ne sarebbe del tutto estranea. Per quel che ricordo, ha cominciato a sostenere questa tesi Piero Ostellino (Corriere della Sera del 23 dicembre 2010), e su questa scia, confortati dall’opinione di un liberale doc come lui, si sono andati orientando anche altri autorevoli commentatori, da ultimo Angelo Panebianco sul Corriere del 22 aprile. La prova di ciò starebbe in particolare nel primo articolo della Costituzione, apparente frutto avvelenato di quel connubio.

“Siccome le cose, quando sono ripetute all’infinito senza contestazione finiscono per diventare verità storiche (la tecnica orientale del “mantra”), mi sembra il caso di intervenire per fornire ai lettori qualche elemento di conoscenza in più.

“In primo luogo per evidenziare che la componente liberale era ben rappresentata (41 liberali e 23 repubblicani, rispetto a 207 democristiani, 115 socialisti e 107 comunisti) e ben qualificata (Bozzi, Cortese, Croce, De Caro, Einaudi, La Malfa, Martino, Pacciardi, per citarne solo alcuni ed in ordine alfabetico) nell’Assemblea Costituente, nei cui lavori non ha mancato di esercitare una significativa influenza, in particolare anche sull’articolo 1, impropriamente invocato come dimostrazione del contrario.

“A contrastare quell’erronea convinzione ci ha provato prima Michele Ainis sul Corriere del 21 aprile, quando ha affermato che “la libertà già alberga, come noce nel mallo, nella democrazia evocata dall’art. 1”, e da ultimo Paolo Franchi sul Corriere del 23 aprile, affermando giustamente che “le cose sono parecchio più complicate” rispetto al giudizio sommario che normalmente si da del primo articolo della Costituzione. Che, intanto, andrebbe letto nella sua interezza, posto che il suo secondo comma, in cui si afferma che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, è una norma di chiara ispirazione liberale, essendo caratteristica tipica del costituzionalismo liberale quella di introdurre forme e strumenti di garanzia e di porre limitazioni al potere.

“Sono proprio quelle forme e quei limiti che consentono di definire la nostra come una democrazia liberale, e che la differenziano ovviamente da tutte le forme di democrazia totalitaria (in Germania come in Russia, nel secolo scorso, in Cina ed altrove ancora oggi), ma anche, per l’oggi, da tutte le forme di democrazia autoritaria (in Russia, in qualche paese dell’Europa orientale, da ultimo in Ungheria, come in Nord Africa e nel Medio Oriente), o plebiscitaria (come in Venezuela).

“E tuttavia, la cultura liberale è presente anche nel primo comma dell’art. 1. Qualcuno ha ricordato che, nel corso dei lavori, i comunisti Togliatti, Amendola, insieme ad altri, avevano proposto la formula “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”, chiaramente caratterizzata in senso socialista, che i costituenti respinsero in una votazione che vide schierati insieme liberali e democristiani. E Panebianco ha opportunamente evidenziato che La Malfa e Martino avevano proposto una formula che metteva l’accento sul tema della libertà: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro”.

“Ma nessuno ha ricordato che un altro liberale, Guido Cortese aveva proposto un’altra formulazione che, mettendo l’accento sui cittadini in quanto tali (piuttosto che sui lavoratori) e tuttavia anche recependo lo spirito della proposta Togliatti, appariva sostanzialmente finalizzata ai medesimi obiettivi della proposta La Malfa-Martino: ”L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica ha per fondamento il lavoro e garantisce la partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione economica, politica e sociale del Paese”.

“Al termine di un appassionato dibattito di altissimo livello culturale, l’Assemblea Costituente (seduta del 22 marzo 1947) finì per approvare il testo proposto dai democristiani, che è poi quello attualmente in vigore. Illustrando la sua proposta, Fanfani ebbe cura di precisare: “In questa formulazione l’espressione <democratica> vuole indicare i caratteri tradizionali, i fondamenti di libertà e di eguaglianza, senza dei quali non v’è democrazia. Ma in questa stessa espressione, la dizione <fondata sul lavoro> vuol indicare il nuovo carattere che lo Stato italiano, quale noi lo abbiamo immaginato, dovrebbe assumere. Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui, e si afferma che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale”.

“A me pare che un buon liberale farebbe fatica a non condividere interamente quelle motivazioni, mentre è assolutamente evidente che il testo approvato non si discosta granché da quello che era stato proposto dal liberale Guido Cortese. Dire che <l’Italia è una Repubblica democratica… che ha per fondamento il lavoro>, non mi sembra granché diverso dal dire che <l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro>. Certo, se i liberali fossero stati maggioranza assoluta nella Costituente avrebbero magari potuto fare adottare la formula La Malfa-Martino; e tuttavia credo che quello raggiunto nell’occasione sia stato un saggio compromesso, che non merita oggi di essere degradato a simbolo di un presunto connubio cattolicomarxista, che, almeno in quell’occasione non c’è stato.

“E, se proprio vogliamo trovare un esempio di quel connubio, allora faremmo meglio a fermare l’attenzione sul secondo comma dell’art. 7 della Costituzione, che ha sostanzialmente costituzionalizzato i Patti lateranensi. Ma questa è un’altra storia, assolutamente ignorata dai sedicenti liberali di oggi, tutti protesi ad ingraziarsi i favori d’oltre Tevere, nell’illusione di ottenerne qualche presunto beneficio sul terreno del consenso elettorale, che è l’unico al quale sembrano realmente interessati.”
ENZO PALUMBO


Comments:
Ottimo articolo e chiarificatore.
 
Due articoli indovinati che toccano un aspetto insolito. Complimenti.
 
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